Wild strawberries
GROUND TO GROUND
Una raccolta di testimonianze personali dai protagonisti del mondo artistico, culturale e cinematografico e una serie di riflessioni sull'immagine cinematografica a firma Wild.
Voci per la riapertura / Nuovo Cinema Covid
June 12 ,2020
L’assurdità, scriverebbe Albert Camus, della “peste” Covid-19 ci ha raggiunto con la forza di uno tsunami, lasciando implodere le idiosincrasie della nostra “ordinarietà”. La filiera cinema, di fronte al metaforico incendio delle strutture tradizionali, creative, sistemiche e di visione, si è dovuta confrontare, nel mezzo di un possibile collasso economico globale, con un’accelerazione vertiginosa dei processi di colonizzazione culturale messi in atto dalle grandi piattaforme e con una quanto mai necessaria riflessione sull’arte cinematografica che metta in discussione la tradizione, riaccendendone la vitalità che l'ha resa tale. Molteplici sfide in un brevissimo tempo. E una parola che riecheggia, incombe, declinata in molteplici significati e significazioni: innovazione. Sì, ma a quale prezzo? Con quali premesse? Innovazione rispetto all’arte cinematografica, alla tecnologia della visione o alla modalità di produzione? Il memorabile great lockdown che abbiamo vissuto – nella sua eccezione sanitaria ed economica – ha messo al centro le radici economiche dello sguardo cinematografico, ricordandoci da una parte la sua natura industriale dall'altra gli ammonimenti debordiani della riduzione a mera accumulazione di capitale. Da queste premesse, ascoltare le voci di chi la filiera cinema la sorregge quotidianamente è a mio avviso necessario per restituire una fotografia complessa e dialettica dello stato delle cose, quanto mai in divenire.
Le elaborazioni del trauma in un possibile output artistico sono state differenti, questionando modalità innovative di scrittura, di regia e produzione. Il maestro del reale Leonardo Di Costanzo, il cui set targato Tempesta sarebbe dovuto partire a luglio, nonostante il blocco forzato, si è trovato di fronte ad una sincronicità inaspettata e virtuosa: “Il mio terzo film, ambientato in un carcere nel quale improvvisamente per motivi di natura burocratica i detenuti vivono una sospensione irreale, ha evidenti affinità con la realtà che abbiamo vissuto. Gli stessi attori che avrebbero dovuto fare i workshop di preparazione si sono trovati, improvvisamente, in una condizione che simulava esattamente quella della finzione. Personalmente penso – dopo un primo tentativo di analisi e anche di azione – che tutto ciò che abbiamo vissuto entrerà nelle nostre produzioni, ma ne misureremo la portata, sia a livello individuale che collettivo, più avanti, grazie ad un piccolo distanziamento”.
Se qualcuno ha scelto l'ascolto, altri hanno deciso di agire nell'urgenza come Gabriele Salvatores con il progetto Viaggio in Italia che ha raccolto ad oggi quasi 16.000 video girati dagli italiani durante il lockdown e più recentemente Daniele Vicari con il film collettivo Il giorno e la notte che viene descritto dallo stesso autore come un'opera “domestica che pratica una sorta di smart filming”, con gli attori stessi chiamati oltre che a recitare, anche ad allestire il set a casa propria e a girare con un kit apposito fornitogli dalla cabina di regia.
Molte anche le opere collettive, nate sull’onda degli accadimenti e articolate secondo differenti Weltanschauung, che tentano di leggere il reale. A marzo è iniziato il percorso de Le storie che saremo prodotto da Ginko Film con la curatela di Marco Zuin in collaborazione con sei tra i maggiori archivi nazionali ricontestualizzati dallo sguardo di sei registi. La comunità di filmmaker milanese si è invece raccolta attorno alla “chiamata alle arti” del progetto Instant Corona prodotto da MIR Cinematografica, AIR3 e promossa dal Milano Film Festival: “Abbiamo voluto raccontare in un ibrido visivo – tra video-arte, finzione e documentario – e produttivo con la maggior parte delle attività in remoto”, racconta il produttore di MIR Francesco Virga, “una città che si auto rappresenta vincente e che, improvvisamente, si deve confrontare con le conseguenze di una pandemia globale. Il film, figlio di questo momento emergenziale ha avuto il merito di mettere in risalto la vitalità delle reti sociali, culturali, del volontariato della città, ma anche le difficoltà di chi vive sotto i livelli di povertà”.
I processi di accelerazione messi in atto dalla pandemia hanno avuto un impatto sulla produzione, nel peggiore dei casi bloccandola o in alcuni casi costringendo a ripensamenti di tipo editoriale e logistico. Laura Buffoni, incaricata dello sviluppo progetti per Fandango ha avvertito un progressivo cambio di metodo da parte degli stessi autori: “Abbiamo sperimentato dinamiche nuove, un tempo virtuale e differente. C'è chi si è paralizzato creativamente, in maniera assolutamente giustificata, e chi invece ha cercato un confronto più intenso. Ma per avere certezze è ancora presto. Al momento quello che ci interessa è capire come questo trauma collettivo andrà a sedimentarsi nelle storie: come per gli eventi c'è un tempo di storicizzazione necessario così per la creatività c'è un tempo in cui si passa da cronaca ad immaginario. Noi siamo ancora nel limbo che distanzia i due momenti”.
La transizione dallo script al set ha dovuto attendere Il protocollo siglato il 27 maggio, che offre una sorta di codice di autoregolamentazione firmato dalle associazioni che rappresentano tutta la filiera: tamponi preventivi e settimanali, mascherine protettive, strumenti monouso per i singoli componenti del cast, costumi di scena individuali e non condivisi dai generici, utilizzo delle app per il contact-tracing. Come racconta Bettina Pontiggia, costumista per registi quali Paolo Virzì, Alina Marazzi e Francesca Archibugi, “Il nostro è un lavoro fisico con un contatto diretto, di prossimità. La situazione ci ha fatto sentire davvero minacciati. Il cinema non è un mestiere che da grandi certezze economiche. Normalmente abbiamo lunghe pause tra un set all'altro, ma questa volta non abbiamo prospettive”. Giovanni Pompili, di Kino Produzioni, dichiara: “Il set è solo la punta di un iceberg di un lavoro, ad esso precedente, lunghissimo. Con due co-produzioni minoritarie in partenza e bloccate per la pandemia – non è stato infatti facile far passare la percezione all'estero di quello che stava accadendo qui – ci siamo concentrati nello sviluppare nuove storie, sul guardarci allo specchio e sul fare scouting per trovare partner creativi del futuro. Intanto attendiamo la ripartenza autunnale con molti interrogativi. Il set è un cantiere e si potrà sicuramente mettere in sicurezza, ma la difficoltà più grande è quella di garantire non tanto la troupe, quanto chi è di fronte alla macchina da presa. Aspettiamo metà luglio per capire il da farsi”.
Mentre i set sono in stand by, il sistema festivaliero, bloccatosi bruscamente dopo l'edizione 2020 della Berlinale, ha visto alcune manifestazioni convertite in una versione completamente online – tra le prime il Visions du Réel –, altre rinviate sine die – come il Bergamo Film Meeting e il Festival di Cinema Africano – o annullate del tutto – Locarno Film Festival –, altre ancora che si articoleranno in maniera ibrida, secondo le possibilità previsionali date dalla pandemia ancora in corso: proprio in questi giorni sono state confermate le edizioni 2020 del Cinema Ritrovato di Bologna (25–31 Agosto) e la Festa del Cinema di Roma (15–25 Ottobre). Confermata nelle date previste (2–12 settembre) anche la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, sebbene ancora non sia del tutto chiara la formula con cui la storica manifestazione si presenterà.
Pedro Armocida, direttore artistico della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, ha scelto con grande anticipo di annunciare un festival “in presenza” nelle tradizionali date estive. “Seguendo il movimento #iorestoacasa abbiamo, nella prima fase di lockdown, deciso di mettere online i lavori delle passate edizioni, sicuramente un'opportunità del virtuale rispetto ad un cinema sperimentale notoriamente poco visto. Sono però contrario al semplicistico mantra del doversi “ripensare” – che come concetto generale trova il mio totale supporto, ma che per la sala rischia di banalizzare il tema fondante dell'incontro tra film e il pubblico del festival. Come direttore non riesco ad immaginare il festival distaccato dal luogo fisico in cui si svolge. Ma affrontando l'emergenza, nell'incertezza normativa e con l'impossibilità di avere molti degli ospiti dall'estero, ho deciso comunque di coniugare la parte online per supplire alla mancanza di chi non potrà presenziare. Quest'anno l'edizione avrà un concorso aperto a minutaggi e formati differenti, una parte all’aperto più attenta al grande pubblico”.
Anche a Milano, tra le zone più duramente colpite della pandemia a livello nazionale, si reagisce attraverso una configurazione ibrida della storica kermesse del Milano Film Festival prevista dal 2 all'8 ottobre 2020. “La comunità festivaliera, tornata da Berlino quasi ad inizio lockdown si è trovata di fronte ad una improvvisa smaterializzazione del cinema. Sale chiuse, produzioni bloccate. Tutto è passato velocemente online”, racconta Alessandro Beretta, direttore artistico del festival, insieme a Gabriele Salvatores. “Con gli archivi, le cineteche, i canali a pagamento free e open la disponibilità di immagini in movimento è diventata enorme in pochissimo tempo, in un vortice bulimico di prodotti audiovisivi. Alcuni festival, che ho seguito, si sono trasformati velocemente, ovviamente a causa dell'emergenza, nella loro versione online. Trovo le soluzioni dettate dalla straordinarietà della situazione assolutamente lodevoli, ma preciso che per noi l’idea di festival è in primis un’idea di comunità e società civile, ma anche un’esplorazione condivisa del cinema. In questa versione Expanded avremo una parte online, ma cercheremo ad ogni costo di avere una parte fisica, per ovvie ragioni simboliche”.
Francesco Giai Via, direttore artistico del Festival di Cinema Italiano di Annecy e di Carbonia (6–11 Ottobre 2020) studia soluzioni sperimentali ed alternative per le due manifestazioni: “Una risposta obbligata per chi, nei contesti medi e piccoli, non può permettersi di fermarsi e sa che nel futuro dovrà agire in un contesto di crisi con il rischio enorme che non proponendo una soluzione emergenziale, l'anno successivo, non avrà le stesse economie”. Molti dubbi leciti e motivati sono scaturiti dalle difficoltà sorte nella riorganizzazione che ha scardinato molte consuetudini. “I festival sono esplosi per quantità, divenendo una sorta di circuito distributivo parallelo. Possiamo, dopo tutte queste ipotesi, pensare a delle modalità diverse? Quando si è dentro la consuetudine si rischia di perdere il quadro generale per il mantenimento di un generico status quo che si confonde con la tradizione. Non tutti i festival assolvono alla stessa funzione, per pubblico, per comunità di riferimento o per l’industria. Non sono un corpo unico. A mio avviso dovremmo ragionare sui temi della sostenibilità e al privilegio della nostra piccola comunità viaggiante che può avere accesso, con il pubblico locale, a certi film che esistono in quei contesti e basta”.
La possibile coesistenza tra piattaforme, nate nell'accelerazione imposta dalla pandemia, e gli esercenti delle piccole e medie sale cinematografiche, è proprio tra gli interrogativi che si pongono per gli scenari futuri. Anastasia Piazzotta, distributrice e responsabile di Wanted Cinema, ci racconta il processo decisionale che l'ha condotta alla creazione, a fianco alla propria attività di distribuzione, della piattaforma Wanted Zone. “Quando abbiamo capito che l'onda sarebbe stata lunga abbiamo pensato di trasferire l’attività distributiva sul digitale, coinvolgendo gli esercenti che seguono e sostengono le nostre uscite. Wanted Zone dava loro la possibilità di promuovere i nostri titoli attraverso la loro reti, programmando in una sala virtuale con orari scelti di comune accordo come per delle proiezioni fisiche. Dopo la prima newsletter di proposta abbiamo però raccolto opinioni divergenti, dubbi, paure giustificate. Domandavamo l'attività opposta che avevano sempre fatto: chiedere al pubblico di vedere film sul piccolo schermo e non in sala”.
Anche il direttore di MyMovies, Gianluca Guzzo, ideatore – con Andrea Occhipinti per Lucky Red e Antonio Medici per Circuito Cinema – della piattaforma MioCinema e gestore dell'infrastruttura web di #iorestoinsala, motiva l'iniziativa con il tentativo di arginare l'emorragia di quell'utenza che – senza un punto di riferimento per un cinema di qualità – migrava verso contenuti e piattaforme mainstream: “Confrontandoci abbiamo pensato ad una iniziativa che parlasse con lo stesso linguaggio delle sale cinematografiche, dando loro gli strumenti per dialogare con il proprio pubblico e allo stesso tempo tornare a guadagnare (il quaranta per cento dei ricavi della piattaforma va alla sala). MioCinema, a differenza delle altre piattaforme, ha infatti degli ambasciatori a livello nazionale che comunicano personalmente e territorialmente”.
Se molte delle piattaforme sono nate come strumento alternativo alla sala in attesa della riapertura e come possibile doppio schermo virtuale dell’esercente, alcune realtà ne hanno ravvisato differenti rischi: “Da piccola distributrice penso che il Covid abbia scoperchiato alcuni nodi nevralgici di un sistema che aveva già parecchi problemi” afferma Letizia Gatti, distributrice per Reading Bloom. “Sto lavorando, in maniera assembleare, affinché ci sia una politica culturale condivisa con tutti i soggetti della filiera indipendente, garantendo ai piccoli film un'uscita theatrical dignitosa nonostante i grossi rischi d'impresa che ne derivano. Non sono contraria dopo le prime settimane ad un'uscita online per i piccoli film che sicuramente ne gioverebbero, ma penso in maniera preminente alla sala come luogo di elezione del cinema”.
Stefano Boni e Grazia Paganelli, programmatori del Cinema Massimo, illustrano la posizione culturale della sala del Museo Nazionale del Cinema di Torino: “Il museo istituzionalmente ha scelto inizialmente di non aderire a progetti online, considerando la visione filmica come essenzialmente vincolata al grande schermo. Ci siamo allineati ad una generica e non ufficiale posizione dell'Agis, la quale sostiene che, in un momento così difficile, sottrarre prodotto alle sale per andare in streaming non sia da prendere in considerazione. Abbiamo quindi preferito non affrettare i tempi per reagire alla pandemia. È vero che il Cinema Massimo programma film di prima visione, ma la sua funzione primaria è quello di essere una sala cinetecaria che programma i classici della storia del cinema e le retrospettive. Il nostro compito è costitutivamente quello di invogliare il pubblico a vederli sul grande schermo”.
La previsione di riapertura del 15 giugno, voluta dall'ultimo DCPM governativo, nonostante la lunga attesa ha suscitato notevoli malcontenti tra i piccoli e medi esercenti “Chiaramente su questa data c'è stata una facile ironia” ci racconta Chiara Malerba del Nuovo Cinema Azzurro di Ancona, “In una città di mare, la stagione cinematografica volge al termine in primavera e la stagione distributiva termina con la proposta cannense. Il 15 giugno ci è sembrata una data fantascientifica sia per le richieste dei protocolli di contingentamento sia per l'investimento economico difficile da attuare dopo mesi di chiusura. Come gestori di un monosala abbiamo deciso di rinviare a settembre e abbiamo aderito per la stima rispetto ad un'istituzione come la Cineteca di Bologna, nonostante alcuni dubbi legate alla virtualità, a #iorestoinsala. Ma conosciamo il nostro pubblico e siamo sicuri che appena sarà possibile avrà voglia di venire a trovarci fisicamente”.
Se alle misure restrittive del DPCM per la riapertura del 15 giugno gli esercenti hanno risposto senza entusiasmo, per le sopra citate difficoltà, nelle varie aree nazionali metropolitane fioriscono nell’emergenza le arene estive come possibile soluzione non solo cinefila, ma anche puramente aggregativa. Non sono tuttavia mancate le polemiche: la più recente, dai toni assai aspri, ha visto contrapporsi l’associazione “Piccolo America”, che da anni anima periferia e centro di Roma con il “Cinema in piazza”, e l’Anica, per il presunto mancato ottenimento di alcune pellicole da proiettare durante la rassegna. A Torino, invece, Fulvio Paganin, organizzatore dell’arena di Palazzo Reale, afferma: “Inizialmente si è proposto il drive in come possibile soluzione che – personalmente – non ho mai condiviso. Mi sembra assai impensabile che il pubblico italiano, con una cultura lontana da quella americana, dopo mesi di isolamento e macchine non adeguate, possa far propria questa consuetudine”. Anche la costruzione di una arena tradizionale comporta però innumerevoli difficoltà che si stanno palesando nella chiusura dei programmi per la stagione estiva. Come sottolinea lo stesso Paganin, “Rispettare il DCPM per la costruzione dell'arena richiederebbe un’area enorme di allestimento, con una serie di rischi d’investimento aggravati dalle misure che cambiano continuamente e la paura di un nuovo picco di contagi. Inoltre, attualmente non conosciamo la risposta delle persone e la loro vera voglia di tornare al cinema. Siamo sicuri che si abbia voglia di separarsi dal proprio congiunto o dall’amico durante la proiezione? E magari per dover rimanere tutto il tempo del film con la mascherina sul viso?”.
Nel complesso quadro delineato dalle molteplici, ma strutturalmente non esaustive, voci chiamate a raccontare l'attuale stato delle cose della filiera cinematografica italiana emergono molteplici piani del discorso che richiederanno una necessaria e virtuosa concertazione governativa a partire dalle singole istanze delle associazioni di categoria. Se sul piano economico le esigenze di ripartenza del cinema come industria, secondo le feroci regole della domanda e dell'offerta, sono urgenti e prevedono soluzioni immediate – se pur transitorie, in perfezionamento, forse effimere – e se le tecnologie della visione si adeguano alle richieste cangianti del mercato con abilità mimetica, la radice emotiva riscontrabile nel discorso degli autori, in quella dei curatori dei festival e nel grido d'aiuto di piccoli e medi esercenti prende avvio dalle parole condivisione collettiva che rimangono il comune denominatore delle testimonianze raccolte. Starà a noi, come comunità cinematografica, comprendere, rimodulare e rendere onore a questo valore intrinseco e fondante, nel suo etimo originario e non alienato.
Irene Diniosio per Doppiozero.
Guggenheim. L'ultima dogaressa
July 24, 2019
“Vedo il museo come un’entità vivente, non un mausoleo. Desidero fortemente che gli spettatori
che tornano più volte a visitarla possano scoprire sempre nuove connessioni tra le opere esposte”
afferma con passione Karole Vail, nipote di Peggy Guggenheim e attuale direttrice della
Collezione che porta il nome della nonna. La Vail sarà a Torino stasera per la rassegna “Cinema a
Palazzo” - presso il cortile di Palazzo Reale a Torino - per presentare il biopic diretto da Lisa
Immordino Vreeland , “Peggy Guggenheim: Art Addict, sulla figura della geniale collezionista che
cambiò per sempre il mondo dell’arte contemporanea e divenne un simbolo unico di
emancipazione femminile.
“Peggy Guggenheim: Art Addict” ci racconta attraverso numerose e celebri testimonianze (Germano
Celant, Marina Abramovic, Robert De Niro tra i tanti) ed una bobina inedita - che per molto tempo si è
pensato fosse andata perduta - raccolta dalla prima biografa di Peggy, Jaqueline Weld, l’avvincente vita di sua nonna. Che reazione ha avuto alla visione del film?
“Queste bobine riscoperte dalla regista Immordino tramite la Weld per il libro Peggy: The
Wayward Guggenheim sono state un grande colpo davvero! Hanno sicuramente reso - insieme ai
meravigliosi archivi - il film speciale e rilevante. Era quarant’anni che non sentivo la voce di mia
nonna. E’ stato al contempo uno shock ed un’emozione sublime. Era una voce che ricordavo bene
nonostante il tempo e riascoltarla mi ha portato indietro nel tempo, nei corridoi di Palazzo Venier
dei Leoni, a Venezia”.
Karole è stata curatrice del Museo Solomon R. Guggenheim di New York e membro del suo staff
curatoriale dal 1997. Prima di entrare a far parte del Guggenheim ha lavorato come archivista e ricercatrice
a Firenze al Centro Di casa editrice e centro di documentazione specializzato nella pubblicazione di libri di
storia dell'arte. Come direttrice dal 2017 della Collezione quali sono i suoi principali obiettivi e come vive
questo doppio legame affettivo e professionale?
Siamo qui naturalmente per celebrare la Collezione di Peggy - tra le più visitate in Italia con oltre
400mila visitatori e, a Venezia, seconda soltanto a Palazzo Ducale - ma personalmente cerco di
non farmi sovrastare dalla figura di questa donna eccezionale e di andare oltre al legame familiare
come penso sia più corretto e professionale. I miei obiettivi per la Collezione sono molteplici.
Sicuramente dipendiamo dal nostro pubblico e quindi è nostro dovere assicurarci che la
Collezione sia il più accogliente possibile e sia un luogo dove trovare spazio e tempo per
contemplare le opere e per riflettere.
Qual è stato il momento più gratificante della sua carriera?
Tengo molto alla retrospettiva Moholy-Nagy: Future Present (2016) organizzata al Guggenheim di
New York. L’artista non è stato tra le figure collezionate da Peggy - che però probabilmente ne
conosceva l'opera - e come curatrice è stato per me fondamentale sottolineare il suo ruolo attivo
nella nascita della Bauhaus Americana.
Con la mostra Peggy Guggenheim. L’ultima Dogaressa da lei curata con Gražina Subelytė e che sarà
visitabile dal 21 settembre 2019 al 27 gennaio 2020 la Collezione Peggy Guggenheim celebra la vita
veneziana della sua fondatrice. Quali sono le linee guida della curatela?
Questa mostra rientra nel programma di commemorazione dei quarant’anni della scomparsa di Peggy e i
settanta dall’acquisto Palazzo Venier dei Leoni, la “splendida dimora non finita” sul Canal Grande.
L’esposizione si focalizza nello specifico sul collezionismo post 1948 della mecenate, dopo la sua partenza da
New York, la chiusura della galleria-museo Art of This Century e il trasferimento a Venezia.
A Palazzo Venier dei Leoni saranno visibili le opere della Seconda Guerra Mondiale. Negli spazi temporanei
le acquisizioni del periodo veneziano. La mostra sarà accompagnata da una nuova pubblicazione - non
un catalogo - attenzione! - sull’intero percorso di Peggy dagli esordi londinesi al capitolo newyorkese. In
mostra ci saranno opere raramente viste come quelle di Kenzo Okada e Gwyther Irwin e quelle degli
artisti da lei scoperti appena arrivata a Venezia come Tancredi, Bacci, Vedova. Inoltre sarà un’occasione
rara per vedere esposta, nella sale di Palazzo Venier dei Leoni, Scatola in una valigia (Boîte-en-Valise),
realizzata da Marcel Duchamp nel 1941. Raramente visibile al grande pubblico per la sua delicatezza, sarà
nuovamente in mostra dopo un importante intervento di conservazione all’Opificio delle Pietre Dure di
Firenze. Nel complesso saranno esposte quasi tutte le opere della Collezione, quindi un’occasione
imperdibile per celebrarla.
Irene Dionisio per La Stampa Link
Alice nel paese di Netflix
July 11, 2019
Nel 2017 “I Netflixiani”, così informalmente soprannominati a Roma, sono giunti nella Capitale immettendo nuove energie creative e liquidità. L’obiettivo è duplice: quello di produrre contenuti originali per la piattaforma e di, letteralmente, “abbonare tutto il mondo”. Baby, liberamente ispirata alla vicenda delle baby squillo dei Parioli, esplosa nell'estate 2014, è stata lanciata come terza serie Netflix italiana. Tra i volti più amati della serie, di cui si è già girata la seconda stagione, quello della giovanissima Alice Pagani che dopo aver lavorato con Guido Chiesa si è fatta conoscere in Loro di Sorrentino, interpretando una giovane aspirante attrice capace di dire no ad uno degli uomini più potenti d’Italia, Silvio Berlusconi. La Pagani sarà presente stasera a Torino in veste di madrina per l’inaugurazione di "Cinema a palazzo". Il direttore artistico della rassegna, Fulvio Paganin, l’ha fortemente voluta con l’intento “di mettere in connessione il cinema classico con il futuro e ragionare sulla convivenza di due modalità differenti di produzione e visione”. Paganin sottolinea infatti l’esigenza di “dover accettare che la fruizione cinematografica sta affrontando un cambiamento epocale e che un confronto con questa trasformazione è necessario”.
Sei passata da “Classe Z” di Guido Chiesa a Paolo Sorrentino nella doppia uscita di Loro fino al debutto con Baby per Netflix diretta da Andrea De Sica? Cosa ci racconti di questi tre incontri?
Lavorare con ognuno di loro è stato un autentico percorso di crescita. Con Guido Chiesa ero molto spaventata e ansiosa, alla mia seconda esperienza. E’ stata una vera e propria palestra e sul set cercavo di combattere la mia ansia di prestazione e trasformarla in energia positiva e recitativa. Con Paolo Sorrentino è stato differente. Sono passata da essere una fan ad essere una sua attrice e lo stacco non è stato affatto facile. Prima di incontrarlo avevo però visto tutti i suoi film e letto i suoi libri. Dalla sua scrittura avevo molto assorbito la sua essenza e le sue esigenze poetiche. Il cinismo, il black humour, ma anche il lirismo. Quando ho fatto il primo provino con lui ho capito immediatamente cosa cercava e mi sono sentita completamente parte della sua regia. Quando ho lavorato con Andrea De Sica ero in una fase di ricerca e di bisogno di rafforzare la mia consapevolezza artistica. Entrambi emergenti e di età diverse abbiamo lavorato con entusiasmo e complicità. E’ stato tutti i giorni una scoperta.
Che femminilità ti ha ispirato nella tua ricerca interpretativa? E quale vorresti rappresentare in futuro?
Ho molte donne di riferimento e d’ispirazione nel mondo del cinema come Natalie Portman di Leon e V come Vendetta, Uma Thurman in Pulp Fiction, Monica Vitti in Teresa la Ladra, Winona Ryder nella sua intera filmografia. Quello che vorrei invece poter rappresentare è un personaggio che desidera proteggere la propria arte con tutta se stessa, attraverso tempo e qualità. Sono riuscita ad andare via da un piccolo paese nelle Marche e realizzarmi con coraggio. Mi hanno ispirato mio nonno e mia mamma che per scelta di vita non sono riusciti a a fare ciò che desideravano. Li sto riscattando con il mio lavoro d’attrice e vorrei portare questo bagaglio di sentimenti anche in una prossima interpretazione.
Sei il volto che sta raccontando la generazione Z. Una società in evoluzione, liquida, tecnologica e incerta politicamente e culturalmente. Quali sono a tuo avviso desideri e paure della tua generazione così presenti nei ruoli che interpreti?
La mia generazione ha voglia e mezzi di comunicare e lo fa ad una velocità massima. Gli input sono moltissimi e a volte è difficile metabolizzarli che ne stai già vivendo altri. Grazie al mio lavoro d’attrice, ad esempio, cerco respiro e pause da tutto questo. E’ sempre difficile e faticoso trovare momenti vuoti e di concentrazione. Penso che uno dei desideri sia proprio quello di staccare nel mio caso. Le paure, in questo mondo di ipercomunicazione ed esposizione sono invece quelle di essere - sui social - fraintesi o attaccati, a volte anche importunati. E’ tutto così incontrollabile che fa soffrire a volte.
Sarai madrina dell’edizione 2019 di "Cinema a Palazzo" dedicato ai grandi classici e ai grandi autori della storia del cinema. Qual è l'autore che maggiormente ti ha ispirata? E come vivrai questo ruolo da madrina?
Velluto Blu del1986, un film incredibilmente intimo e sperimentale al contempo, mi ha rivelato uno dei miei autori preferiti, David Lynch. L’ho scoperto a 14 anni e da lì in poi mi sono immersa nella sua produzione a 360 gradi. E’ un film profondamente dark, fuori dagli schemi e libero e rispecchia in toto le mie esigenze artistiche. Isabella Rossellini che scappa nuda e sanguinante in giardino e piange disperatamente è uno delle scene che più mi ha scosso nel suo cinema che ancora mi ispira. Sarò per la prima volta madrina di una kermesse ed è naturalmente per me è un grandissimo onore. Sono felice che qualcuno abbia valutato che il mio percorso era arrivato ad una fase più matura nonostante la mia giovane età e, visto che amo il cinema come luogo di scambio, sono felice di potermi confrontare con il pubblico di un’arena.
Irene Dionisio per La Stampa - Torino Link
Ascanio Celestini sulla Sea Watch
June 18, 2019
Ascanio Celestini, 47 anni, attore, drammaturgo, regista cinematografico, scrittore. Artista premiatissimo si fermerà due giorni in Piemonte - tra Torino e Pollenzo - come giurato al Migranti film Festival.
Sei stato direttore artistico del Festival Sabir a Lampedusa che hai anche raccontato con una serie di documentari. Da artista in che modo pensi di esserti relazionato con la migrazione?
Credo che in questo momento così complicato, all’incrocio di differenti narrazioni con velocità differenti - la televisione, la rete, i social, il vicino di casa, il clochard sotto casa - sicuramente la domanda centrale sia come racconto me stesso nel mondo. Più che Heidegger per me in questa domanda c’è Montale. “Non posso che stare nel posto nel quale mi hanno partorito”. Io sono il mio indirizzo, il mio codice fiscale, le mie impronte digitali. Io sto apposto come potrebbe dire Salvini. Però sto anche con Ulisse che sbarca nella terra dei Feaci, dove non trovo né Salvini, né Dublino. C’è una persona “maleodorante” - e questo ce lo dice il Poeta - che sostanzialmente chiede una saponetta per poter mangiare in compagnia. Solo al banchetto del Re dei Feaci, raccontando la propria storia, Ulisse riesce a piangere ed auto compatirsi. A comprendersi. Se non ci collochiamo insomma viviamo in una bolla che non può nemmeno scoppiare.
La capitana Carola Rackete ha dichiarato: “La mia vita è stata facile, ho potuto frequentare tre università, sono bianca, tedesca, nata in un Paese ricco e con il passaporto giusto. Quando me ne sono resa conto ho sentito un obbligo morale: aiutare chi non aveva le mie stesse opportunità”. Cosa ne pensi?
Questa affermazione la darei in dote agli storici dei prossimi secoli…Noi italiani siamo un popolo ricco. Se dovessimo prendere l’acqua potabile a 40/50 Km di distanza potremmo davvero dire di essere poveri. Ma Il cervello come organo non prova dolore, lo stomaco si. Abbiamo bisogno di essere rassicurati con le foto di Salvini che nei selfie mangia la polenta, prima di vederlo in Tv mentre imbraccia un mitra. In questo modo differenziamo il lato emotivo e quello razionale. E giustifichiamo la seconda immagine, perché ci sembra un uomo come noi. Abbiamo sempre avuto bisogno di qualcuno che ci dicesse “stai tranquillo...stai dalla parte giusta del mondo” . Ma non possiamo credere che quella narrazione dominante - seppure sia accattivante ed efficace - , sia anche una narrazione vera.
Carola Rackete ha deciso di forzare il blocco della Guardia di Finanza per portare a riva il suo equipaggio e i 42 migranti. Che differenza c’è tra disobbedienza e illegalità per te?
La legalità è mettersi attorno ad un tavolo e decidere le regole del gioco. Quello stesso tavolo - se vogliamo parlare di disobbedienza - è’ invece diviso in due e non si deve oltrepassare la linea dell’uno o dell’altro. Il domani ci domanda però di immaginare un cambiamento interessante per tutti quelli che sono al tavolo e perché ci si possa sedere tutti, senza distinzioni.
Io personalmente potrei chiudermi nel mio giardino, al mio tavolo da solo oppure mettere a disposizione tutti i miei piatti, i miei bicchieri e decidere di aprire casa mia e mangiare assieme a tutti gli altri.
Carola Rackete, una donna giovane, colta, determinata e ricoperta per la sua “scelta” di insulti sessisti. E ora anche indagata. Cosa ne pensi?
Ne vale la pena. Qualcuno ha scritto “Prima di sbarcarli se li è passati tutti”. Alessandra Ballarini, avvocatessa ed esperta di diritti umani, ci racconta delle donne che arrivano dalla Libia che hanno cicatrici sulle braccia per aver usato del siero che non le faccia rimanere incinta per i ripetuti stupri. Cosa possiamo fare?
Ero ad Auschwitz in visita. Alcuni ragazzi si sono chiesti come potessero certe persone avere casa proprio a ridosso del campo. Gli ho domandato “Ma due chilometri più in giù cosa cambierebbe? Le nostre scarpe o forse anche le tue sono state cucite da un bambino sfruttato e che magari si è venduto un rene". “Questa è la legge di mercato” mi risponde il ragazzo. Ecco le barriere servono a questo. Ad assicurarci di stare dalla parte giusta.
Quando vedo un uomo e la sua bambina morti e abbracciati nel fango a volte penso che i nostri governanti non appartengono a questo pianeta. Dovremmo rivalutare il senso della vergogna.
Sei un narratore che lavora con temi sociali da sempre. Se dovessi raccontare questa storia in uno spettacolo cosa faresti? Che chiave useresti?
Userei una chiave, una vera chiave. Ho bisogno di un oggetto concreto perchè la mia narrazione si svolga su un terreno comune. Pace, odio sono concetti astratti. Il nostro impegno è chiederci quanto ci interessa parlarne o se non ce ne frega nulla. Un artista deve farsi carico a trecentosessanta gradi del mondo. Per raccontare la vita degli altri devo mettermi ad un gradino più in basso. Tanto salirò sempre di un po’ per egocentrismo o narcisismo. Ma non devo raccontarla dall’alto. Lì racconto soltanto mio punto di vista, non la storia di qualcun altro.
Irene Dionisio per La Stampa - Torino
Iaia Forte, il corpo queer del cinema italiano
April 24, 2019
Iaia Forte, poliedrica, talentuosa attrice napoletana si racconta. Dalla carriera costellata di successi e collaborazioni con grandi registi come Corsicato, Martone, Tonino De Bernardi, Sorrentino la Forte approda a Torino come giurata e relatrice per Fronte del Corpo al 34esimo Lovers (24-28 Aprile 2019) al Cinema Massimo - MNC.
Cosa vuol dire per te essere presente ad un festival come il Lovers di Torino, lo storico festival LGBTQI nazionale?
E' certamente un occasione per me di vedere film che non avrei occasione di vedere vista la tragica situazione della distribuzione italiana. E sicuramente mi piace l'idea di tornare qui dopo tanto tempo perchè il Lovers è un festival storico! Un buon festival di cinema, con una grande scelta! Ci sono stata moltissimi anni fa in giuria e penso che Torino sia sempre stato un baluardo di civiltà per tutta Italia! Per la relazione che ha con la bellezza e con la cultura, per il modo che ha di dare attenzione alle minoranze. E inoltre il fatto che ci sia una giovane donna, intelligente e preparata come te a dirigerlo mi riempie di speranza per il futuro.
Sei riconosciuta come uno dei corpi queer del cinema italiano contemporaneo. Quali sono i ruoli che più definiresti tali?
Sono nata con la danza e la danza mi ha portato al teatro sperimentale. Ho sempre ritenuto fondamentale l'uso del corpo al cinema. Sembra retorico dirlo, ma penso che il cinema mi abbia insegnato moltissimo. La gestione del corpo in maniera sottile è la prassi al cinema. Più del teatro. Ho avuto la fortuna di lavorare con registi singolari e di fare cinema senza limiti. Ferreri, Corsicato, Martone, De Bernardi sono registi che permettono il racconto di una certa umanità non convenzionale e con una particolare attenzione alle donne. Hanno permesso delle declinazioni diverse del femminile. Il panorama del cinema italiano le racconta purtroppo attualmente in maniera stereotipata e convenzionale. Aver interpretato donne atipiche, irregolari, virili è una ragione di grande orgoglio per me. Il cinema spesso relega il corpo femminile a qualcosa di più rassicurante e io non voglio essere rassicurante.
Microdirezioni espressive che solo il corpo permette di mettere in atto. La possibilità di raccontare con le battute qualcosa e contraddirlo con il corpo. Il cinema mi ha dato modo di esprimerlo ed esplorarlo in maniera interessante.
Quali sono i ricordi che porti con te per ogni regista che hai incontrato?
Sono grata ai registi non convenzionali. Davvero. Adoravo come Marco Ferreri mi incitava a raccontare ciò che non è rassicurante. Corsicato per poter raccontare la rabbia della donna mi faceva uscire in alcune scene il fumo dalle gambe. Un linguaggio che andava oltre le emozioni oltre la psicologia. Un grande regista davvero, sono grata completamente al suo lavoro. Devo a lui molti dei miei film migliori. Con Mario Martone è stata invece un'esperienza di vita. Ho una visione romantica e penso che essere attori voglia dire lavorare in contesti in cui possano corrispondere utopie desideri e tutto il resto. Teatro di Guerra con Andrea Renzi e Roberto De Francesco è stata una delle esperienze attoriali più intense che abbia mai vissuto. Scene in nudità e in grande ascolto tra di noi. Grande maestria di Mario nel mettere l'attore in una dimensione di grande creatività, attiva e non soltanto passiva. Tonino De Bernardi mi ha fatto invece vivere dei momenti meravigliosi. "La muta" all'interno del film "Piccoli orrori" è uno degli episodi che preferisco con lui. Un omaggio alla forza della corpo senza la parola.
A cosa ti stai dedicando in questo momento?
Sto girando una serie "Vivi e lascia vivere" con Pappi Corsicato. Interpreto una cantante stravagante, come mio solito. Mi diverto e mi sento a casa, sempre, con lui. Non ho mai fatto molta televisione, ma con Pappi è diverso. E' molto bello che la Rai abbia affidato a lui questa serie perchè sarà sicuramente una visione atipica. Quest'estate invece riprenderò i testi di una scrittrice adorata dal mondo LGBTQI, Catherine Manfield, Mi ritrovo sempre inconsciamente in testi femminili. che mi danno voce come vorrei.
Irene Dionisio per La Stampa - Torino Link
Erika Lust: la rivoluzione dei corpi
April 23, 2019
Ha confermato la sua presenza al Lovers - dal 24 al 28 Aprile 2019 al Cinema Massimo - anche Erika Lust, una fra le più note registe di pellicole erotiche al femminile a livello mondiale. La cifra narrativa di Erika Lust riflette le sue opinioni sul sesso: un elemento sano e naturale della vita delle persone che, per questo, è necessario raccontare.
Quali sono le motivazioni profonde che ti hanno spinto in questa produzione assolutamente pionieristica nel mondo della pornografia?
Sono motivazioni strettamente personali che risalgono alla mia adolescenza. Da giovanissima avevo già esperienze con la visione di film pornografici. Ma c’era qualcosa che non mi convinceva. Non mi sono mai sentita attratta dai film porno prodotti a livello mainstream. Sentivo che quello che vedevo era fortemente maschiocentrico. Il corpo maschile era protagonista assoluto e le donne venivano rappresentate soltanto come magnifici oggetti del desiderio o strumenti del piacere maschile. Per questa ragione ho iniziato a desiderare fortemente di fare film dal mio punto di vista, con il mio desiderio, la mie fantasie, le mie storie. Ho deciso così di girare il mio primo cortometraggio nel 2004 e di metterlo gratis online aprendo un blog personale ErikaLust.com. Appena caricato su youtube ho avuto in pochissimi giorni migliaia di visualizzazioni e moltissime donne hanno iniziato a scrivermi per congratularsi con me. Mi dicevano di amare follemente la mia nuova prospettiva e che non avevano mai visto nulla del genere. Grazie a quelle reazioni mi sono sentita finalmente che non era la sola ad avere quell’esigenza. Insomma mi sentivo davvero capita.
Come secondo te questo tipo di nuova produzione cinematografica può cambiare concretamente la società?
Non si tratta soltanto del cinema, ma della televisione, dell’arte, dei giornali. E’ tutto visto da una prospettiva maschile. E’ chiaro che inserire una prospettiva femminile in un mondo prettamente maschile è rivoluzionario. Penso che abbiamo davvero l’esigenza che l’arte riesca a cambiare lo stato delle cose. E la pornografia come prodotto di consumo mai in crisi ha un potere enorme.
A mio avviso dovrebbe essere trattato con meno tabù vista l’importanza che la sessualità ha nelle nostre vite. Avere una pornografia al femminile rende più semplice anche una giusta relazione con il proprio corpo, rispettandolo e considerandolo qualcosa di sporco e immorale. La sessualità è salutare, fondamentale per il genere umano. Semplicemente naturale. Noi siamo sul pianeta terra perchè si fa sesso. E’ assurdo nascondere questa evidenza. Negli ultimi dieci anni molte cose sono cambiate. Il porno è su internet e rappresenta un terzo del traffico sulla rete. E’ accessibile, molto accessibile. E’ quindi ancora di più necessario che una visione bilanciata, non maschiocentrica, non razzista, non discriminatoria e non degradante per le donne trovi il suo spazio.
Cosa è cambiato per le donne nel mondo del lavoro e nella sfera della sessualità dall’inizio della tua carriera?
Stiamo assistendo ad una rivoluzione femminista sicuramente. Le donne sempre di più stanno acquisendo potere e ricoprono ruoli che non avevano mai coperto prima. Sempre di più gli immaginari si stanno modificando e spero vivamente che non si torni indietro. Penso anche che si possa parlare di una sorta di liberazione sessuale visto che sempre di più il sesso visto da un punto di vista femminile si sta diffondendo. La mia produzione si è inserita in una nuova onda che ormai era necessaria per tutti. La sessualità per sua natura diviene un’opportunità di emancipazione e di felicità che non va assolutamente persa, ma incentivata. Come sai, come atto militante, attraverso la mia casa di produzione produco e finanzio giovani registe, sostenendo il loro talento per “aprire” sempre di più il panorama del cinema internazionale alle donne. Questo è davvero importante per me. Nella mia casa di produzione abbiamo una percentuale dell’80 per cento di donne che lavorano con me in ruoli di responsabilità. Lavorare sull’autocensura femminile a ricoprire ruoli di potere nella produzione cinematografica è uno dei miei obiettivi. Gli uomini hanno avuto questi ruoli fino ad ora, è necessario bilanciare gli immaginari e si deve farlo in ogni campo. Ho iniziato proprio per questo motivo un programma specifico con la mia casa di produzione che permette a delle giovani registe di produrre il loro film erotico. A Torino nel focus che mi avete dedicato - e di cui sono molto felice - mostrerò infatti molti di questi film dal contenuto saffico. Avrei moltissime altre cose da dire, ma le lascio al nostro incontro torinese.
Irene Dionisio per La Stampa - Torino Link
Jennifer Kent, la convergenza della lotta
September 09, 2018
I have wished a bird would fly away, And not sing by my house all day;
Have clapped my hands at him from the door When it seemed as if I could bear no more.
The fault must partly have been in me. The bird was not to blame for his key.
And of course there must be something wrong
In wanting to silence any song.
(A Minor Bird, Robert Frost)
In un folto bosco si propaga la voce di un soave usignolo. Clare, giovane detenuta irlandese, tiene tra le braccia il proprio bambino a cui canta con dolcezza una nenia, mentre raggiunge le cucine in cui è impiegata per scontare la propria pena. Questa Madonna con bambino, rassicurante e materna, magistralmente incarnata dalla luminosa Aisling Franciosi, si trasfigura, in un rapido e secco stacco di montaggio nel suo opposto quando l’affilato coltello che stringe tra le mani appare sullo schermo. Grazia e violenza, “femminilità” e “mascolinità” vengono sintetizzati nel paradossale incipit ponendoci con risolutezza la prima domanda: quanto il nostro immaginario, strutturato da secoli di cultura visiva derivante da una società patriarcale, è preparato a un ribaltamento di campo?
In The Nightingale di Jennifer Kent, rape and ravenge ambientato nell’Australia dell’Ottocento in cui i ruoli di genere sono impietosamente rovesciati, seguiamo la furia indomabile della protagonista a cui un ambizioso e crudele ufficiale inglese (il sex symbol Sam Claflin, protagonista di diversi blockbuster campioni incasso) ha tolto tutto ciò che aveva al primo tentativo di emancipazione: un figlio neonato, un marito rispettoso e ogni dignità, stuprandola ripetutamente. Affiancata nel suo percorso da un nativo interpretato dell’attore indigeno Baykali Ganambarr (vincitore del Premio Mastroianni), la protagonista diventa parte di una bizzarra coppia intenta a compiere il fantomatico viaggio dell’Eroe.
La seconda opera della Kent è consapevolmente simbolica e stilizzata, in una anti-narrazione che preferisce accostare al discorso razionale sull’oppressione delle minoranze (Logos) la nudità della voce (Mythos). L’abbacinato percorso di rinascita prima di giungere alla Civiltà, raffigurata attraverso uomini in uniforme che si preparano alla guerra, nasce dall’incontro degli oppressi. Il canto dell’usignolo (nightingale), simbolo della grazia e dell’alba, e quello del merlo (black bird), segno di un potere sciamanico e naturale tenuto in schiavitù, convergono lungo il cammino. Nella loro naiveté, Clare e Billy sembrano essere gli unici capaci di traghettare – attraverso l’intersezionalità della loro lotta – l’odio di un immaginario violento e maschile verso altre fasi.
Gli spostamenti tellurici mondiali provocati dai movimenti fisiologicamente ambigui del Me Too, del Too White e dei loro derivati innervano il film, che oscilla tra la dimensione horror e il pamphlet politico. Come non leggerlo onestamente animato dallo spirito del tempo, riducendolo a mero prodotto di “buona” o “cattiva” narrazione? Il fastidio fuori e dentro la sala suscitato da The Nightingale ci racconta di un imbarazzo di fronte all’accettazione di un discorso non razionale. Il canto dell’usignolo e del merlo nero, nella loro purezza, sono semplici, diretti, spiazzanti: appartengono ad un mondo differente, oltre il velo di Maya. Quando l’usignolo, ormai libero, canta per il piacere di cantare, ogni logica decade. E possiamo scegliere se ascoltarlo o meno.
Irene Dionisio per Filmidee - Link
Nouri Bouzid: uno speleologo del sociale
August 15, 2016
Nel gennaio del 2014 Nouri Bouzid ci ha generosamente aperto le porte del suo appartamento di Tunisi. Un appartamento incredibile, pieno di oggetti curiosi, maschere, pupazzi e manufatti artigianali che Bouzid costruisce in una stanza-laboratorio attigua alla stanza da letto.
In questa serena e tiepida giornata d'inverno Bouzid ci ha offerto un caffè e ci ha accordato una lunga intervista. È stata l’occasione per una chiacchierata retrospettiva sull’insieme della sua carriera, in particolare sulle difficoltà burocratiche che i suoi film hanno dovuto superare. Con un tono tra il rassegnato e il comico, Bouzid ci ha raccontato i labirinti burocratici che i suoi progetti cinematografici hanno dovuto attraversare, prima e dopo la destituzione del regime di Ben Ali. Una burocrazia che ovviamente rivela una malcelata censura animata da motivi ideologici posticci e reazionari.
Bouzid si definisce un cineasta della società civile, tanto più dopo che la rivoluzione dei gelsomini ha stravolto gli equilibri del potere generando un fragile processo di democratizzazione. I suoi film mirano tutti a rovesciare i tabù, a spezzare i totem che hanno oppresso e tuttora opprimono la vita privata e domestica delle famiglie tunisine. Temi come la pedofilia, la tortura, la prigionia, la laicità, la miseria nelle campagne, la condizione femminile, il terrorismo, sono scandagliati con sguardo impietoso e benevolo. Con ogni film Bouzid ha cercato di rinegoziare i confini di visibilità e presenza di queste e altre problematiche sulla scena pubblica tunisina. La sua potremmo definirla un'opera di speleologia sociale che ha il merito di pescare nella falda della cattiva coscienza di tutto un popolo.
La biografia di Bouzid è gravata da sette anni di prigionia e tortura, un trattamento che il regime di Habib Bourguiba ha riservato a lui e altri militanti della sinistra estrema negli anni Settanta. A detta di Bouzid, per mettere in piedi un capo d’accusa è bastata una libreria troppo imbastita di testi rossi, Lenin e Mao in primis. Una volta uscito dal carcere e dallo stato di ebrezza ideologica sessantottina, Bouzid fonda su questa esperienza traumatica la vocazione etica del proprio narrare: il suo sguardo rimarrà sempre schierato in difesa delle istanze libertarie e dissidenti del proprio paese.
La Tunisia è in una fase storica delicata, la classe media, in particolare le giovani generazioni, sono ormai affacciate sul mondo senza intermediari, quello dei social network. Anche il filtro censorio dei media piramidali si è molto allentato e questa vicinanza culturale sta ridefinendo le identità sociali e i valori condivisi. Anche se l’ombra della censura di regime sembra aver fatto largo ad una moderna democrazia liberale, Bouzid si dice preoccupato di fronte alle repentine minacce ricevute dalle frange più radicali dei movimenti politici islamici. Si tratta di un pericolo reale che ha visto Bouzid già vittima di un’aggressione da parte di un presunto salafita nel 2011: un ordinario caso di laicofobia. Insomma, ad una censura dall’alto, quantificabile spesso in sovvenzioni e permessi negati, sembra sostituirsi quella più morbida e insidiosa della pressione sociale.
Nouri Bouzid è destinato a rappresentare una figura chiave nella storia della cinematografia araba e panafricana. Due volte vincitore delle Journées Cinématographiques de Carthage, è tra i pochi cineasti magrebini ad aver guadagnato una visibilità internazionale. Lungi dal voler ottenere un effetto agiografico — di santi e martiri siamo già ben assortiti su entrambe le sponde del mediterraneo —, questo dialogo con Bouzid si offre come spunto di riflessione su società emergenti in accelerazione a poche centinaia di chilometri da noi. Con queste società l’Europa stenta ad istaurare un dialogo paritario. La presenza nordafricana nei media del nostro paese si limita alla cronaca impersonale delle migrazioni. Le rappresentazioni di quelle società sono stentate, quando non del tutto latitanti.
L’intervista che ci proponiamo basta appena ad affermare il nostro disappunto, il che non è poco.
Signor Bouzid lei è un degli autori chiave del cinema tunisino. Noi sappiamo che lei ha avuto spesso dovuto affrontare la censura nel suo paese, le andrebbe di raccontarci qualche dettaglio sulla sua esperienza?
Cominciamo con "L'homme de cendres". L'ho scritto nel 1984 mentre lavoravo come assistente alla regia su molti film stranieri. questo lavoro mi prendeva molto tempo e per distendermi, paradossalmente, la sera quando rientravo a casa, mi mettevo a scrivere e questo mi riposava. L'homme de cendres è stato realizzato in una libertà totale da parte mia e da parte degli attori. Ho parlato di pedofilia e dell'origine di questa gioventù tunisina. Ho ricostruito un periodo passato, di quando avevo l'età del protagonista. Nel quartiere dove abitavo c'era una forte presenza ebraica. Ho voluto rendere omaggio a questa presenza e mostrare che eravamo molto amici con loro. Ha il valore di una testimonianza, sono delle immagini che escono direttamente dalla mia memoria. Il signor Levy appare nel film per soli dodici minuti per poi morire di morte naturale. La sua presenza è stata usata come pretesto per proibire il film, ma non era lui il problema. Quello che disturbava era il modo in cui io ho rappresentato la gioventù tunisina, e in effetti non è un'immagine positiva.
Il film è rimasto proibito per molto tempo, e alla fine l'hanno avuta vinta costringendomi a tagliare, nel negativo del film, la cerimonia funebre del signor Levy. E questo solo perché si vedono delle persone, tra cui il rabbino, che leggono delle preghiere in yiddish davanti al feretro. Per me quella scena era un segno di rispetto per la loro cultura. Ci consideriamo tolleranti, e tollerare qualcuno vuol dire fare in modo che possa vivere nella società; se volete farlo vivere in questa società bisogna rispettare il suo diritto alle emozioni, anche al cinema. Ci sono tre padri nel film: un padre biologico, uno iniziatico, e il signor Levy che è il padre di un amico. Il signor Levy rappresenta un padre differente ma alla fine nessuno di questi tre padri può aiutare il protagonista. Quindi per me questo film è un inno contro i padri, contro la società patriarcale.
La sera della presentazione del film alle Journee Cinematographique de Carthage (JCC) c'era una folla impressionante; la gente voleva vedere il film e aveva paura che film non venisse distribuito. C'erano duemila persone dentro e quattromila fuori. Era una follia, una vera follia. In quell'occasione dei manifestanti hanno distribuito due volantini. Un volantino preparato degli integralisti di Ennahda, il partito che al tempo si chiamava orientamento islamico. Un altro volantino era stampato da militanti della sinistra estrema, i miei vecchi amici del carcere. Pensate che nessuno di loro aveva ancora visto il film, e entrambi accusavano il film di sionismo. L'etichetta di "sionista" mi ha perseguitato per diversi anni, per lungo tempo sono stato messo al bando.
Per quanto riguarda Les Sabot d'Or abbiamo ottenuto la sovvenzione, durante gli ultimi mesi di Bourghiba. Qualche mese dopo Bourghiba sarebbe stato destituito da Ben Ali, e le riprese si sono svolte per caso durante il primo anno di Ben Ali. Durante le riprese abbiamo ottenuto tutto quello che abbiamo chiesto, era suonata la ricreazione, come adesso dopo la rivoluzione. Abbiamo girato in prigione, scene di tortura, pompieri, tutto quello che volevamo. Mi hanno addirittura lasciato girare nelle celle dove ero stato prigioniero. Il problema è che quando hanno saputo che avremmo girato nelle celle hanno ridipinto le pareti, mentre tutta la storia di quei luoghi era tutta sulle pareti. C'era una cosa che ha disturbato il ministero dell'interno nella scena della tortura. C'era un momento che volevano assolutamente tagliare, quello in cui un poliziotto urina nella bocca del personaggio. Io stesso ho subito questo trattamento quindi non potevano dire che non esistevano queste cose. Al ministero mi hanno detto "ma come si può fare una scena così con un uomo in divisa? Bisogna rispettare la divisa!". Allora gli ho risposto che non c'era nessuna divisa, voi avete visto una divisa, ma tizio aveva i jeans! In questo caso è stata una mezza vittoria, perché diversamente da L'homme de cendres non abbiamo dovuto tagliare il negativo nella copia master, ho tagliato solo le copie distribuite in Tunisia. Anche perché per fortuna il film è stato presentato a Cannes.
Quando ho scritto Bezness ho ottenuto l'approvazione della commissione. Ma la commissione è solo consultiva, e infatti il ministro ha annullato la sovvenzione. Ufficialmente non c'entrava la censura; il pretesto era che i soldi erano pochi e venivano dati a un solo film. Il ministro e il suo addetto stampa hanno organizzato una campagna stampa contro il film. Hanno scritto delle cose che potevano mettermi in pericolo. C'era scritto "Nouri Bouzid sta preparando un film sulla giovinezza del presidente della Repubblica con l'intenzione di rovinare la sua reputazione". Come se avessi detto ecco da dove viene Ben Ali! E tutto questo perché Ben Alì viene anche lui da Sousse. Ma in quella regione quasi tutti giovani della sua generazione sono passati da questa fase di bezness, di seduttori di turiste. Quindi quello che scrivevano non era completamente falso, ma io non c'avevo pensato. Per me si tratta di un fenomeno che non c'entra con i presidente e la sua reputazione. Se tutti i gigolo diventassero presidenti della Repubblica bisognerebbe chiudere le facoltà e aprire le scuole in spiaggia.
Il protagonista di Bezness è Abdel Kechiche, che ha appena vinto la palma d'oro. Lui è l'unico che ha accettato il ruolo considerando la pressione che c'era. Per questo film io gli avevo chiesto qualcosa di molto preciso: voglio che reciti l'animale sessuale.
Per Making Off abbiamo avuto lo stesso problema. Abbiamo avuto la sovvenzione sulla base di una sceneggiatura edulcorata, perché alla fine avevo compreso il gioco e ho depositato una sceneggiatura che in realtà non era la definitiva. In questa sceneggiatura le scene dietro le quinte erano recitate da due personaggi, il regista e l'attore. Poi nel film siamo diventati io e il protagonista, e parlavamo liberamente, improvvisando. Questo non l'avevo scritto sul copione. Quando ho presentato il film mi hanno detto "se volete l'autorizzazione per far circolare il film dovete togliere le parti making off e tagliare l'esplosione alla fine. Ovviamente io mi sono opposto e gli ho risposto che se toglievo l'esplosione questo terrorista diventa un petardo bagnato. Mi hanno chiesto "perché volete fare paura?". Ma vi immaginate un film sul terrorismo che non fa paura? Allora non è più terrorismo, è una commedia. E poi se togliessi le parti dietro le quinte diventerebbe un film di propaganda per come si diventa terroristi. Il loro punto era: se la politica di Ben Alì ha sterminato, liquidato, tolto di mezzo il terrorismo, perché un film ne parla? Bisogna riconoscere che gli organizzatori delle JCC, fra cui Ferid Boughedir che era il presidente della giuria, mi dissero che se volevo vincere il primo premio era questo il film giusto. In quel momento la Tunisia voleva vincere il premio, e il ministro si sentiva con l'acqua alla gola. Disse "lo facciamo uscire, ma proviamo a togliere l'esplosione". Di nuovo mi sono opposto. Alla fine lo hanno fatto partecipare alle JCC è ha vinto il primo premio, ma dopo questo film sono stato aggredito fisicamente e sono cominciate le minacce di morte su Facebook. Sia prima della caduta di Ben Ali che dopo il regime.
Il Corano possiamo considerarlo ancora come qualcosa di sacro, ma quello che è sacro è personale. Il corano non è il più adatto a risolvere i problemi della vita quotidiana, serve qualcos'altro. Nel prossimo progetto i protagonisti fanno parte della società civile. il titolo provvisorio è Spaventapasseri ma non saprei spiegare perché. Non voglio che abbia un significato simbolico. Se parlassi di simboli smetterei di scrivere sceneggiature. Mettiamo i dati in computer e lasciamo scrivere le macchine. Ci sono dei meccanismi inconsci che agiscono sulla scrittura e se riesco a spiegarmeli o se qualcuno me li spiega taglio immediatamente, perché non c'è più mistero.
Spaventapasseri racconta di una ragazza che torna dalla Siria dopo aver vissuto la cosiddetta jihad del sesso. Ad un certo momento questa storia ha fatto molto rumore, e sono uscite diverse interviste in cui dei ragazzi hanno dichiarato di aver divorziato per poter fuggire. La storia accompagna questa ragazza nella sua ricostruzione, nella lotta con suo padre che vuole ucciderla e di tutto un lungo calvario. Ultimamente sono usciti degli articoli che smentiscono questo fenomeno, dicono che si tratta di false notizie inventate dal presidente Assad. Ma noi sappiamo che è successo e ne conosciamo i protagonisti. Ho inserito tutto questo dibattito nella sceneggiatura dove c'è un personaggio che lavora per un giornale che decide di pubblicare certi articoli. Cercano di ostacolare che questa storia venga allo scoperto perché temono che possa servire al regime di Assad. Non vogliono che la resistenza possa essere accusata di questi comportamenti, ma bisogna distinguere tra la resistenza islamica e la resistenza democratica.
Per me se qualcuno vuole fare politica deve rispettare tutte le credenze e le religioni, deve fare politica il suo credo è un problema suo. Se usa qualcosa che appartiene a tutti per spacciarsi come qualcuno più vicino a Dio e più vicino al paradiso si tratta di individui di cui non ci si deve fidare. All'improvviso, nel giro di tre anni il popolo si è politicizzato. Ha capito i giochi di potere, ne discute, lo giudica, e c'è una coscienza che si sviluppa dall'inizio della rivoluzione rispetto alle donne.
Una coscienza molto forte si sta sviluppando soprattutto nelle donne. Dopo le ultime elezioni hanno compreso quanto possono perdere e quanto possono contribuire. Sento che l'universo femminile è più vicino al mio. Mi interessa più di più perché le donne sono più interiori. In Tunisia gli uomini frequentano i caffè, le strade, vanno allo stadio, si esprimono, mentre le ragazze restano più all'interno, escono più di rado. Hanno più pudore e più segreti. Quindi se voglio fare un cinema dell'interiorità mi sento più a mio agio in universo femminile. E questo soprattutto dopo aver scritto Le Silence du Palais.
Intervista a cura di Riccardo Centola e Irene Dionisio.